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TUTA BLU
(BLUE COLLAR)
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  Stampa questa scheda Data della recensione: 18 dicembre 1980
 
di Paul Schrader, con Harvey Keitel, Richard Pryor (Stati Uniti, 1977)
 
Il qualunquismo della distribuzione fa si che questo fílm girato nel 1977 da Schrader approdi sui nostri schermi diversi mesi dopo il suo ultimo, e più noto lungometraggio AMERICAN GIGOLO. BLUE COLLAR, diciamolo subito è degno di interesse per essere uno dei primi film americani (ma il discorso potrebbe allargarsi facilmente anche altrove) girati in pieno ambiente operaio. Come AMERICAN GIGOLO conferma la serietà e la capacità di Schrader nel campo delle idee cinematografiche. Non ancora in quello della regia. Tutto quanto scrivemmo sul primo vale per il secondo. Con qualche punto a vantaggio di questo, il che non indica necessariamente un punto a favore dell'evoluzione del regista. BLUE COLLAR è puro e ispirato, anche nei lati mancati. AMERICAN denuncia una volontà di piacere, di entrare nelle formule di successo, di sfondare ad ogni costo. BLòUE COLLAR convince per tutto quello che riguarda il discorso. In una fabbrica di automobili del Michigan tre operai, due neri ed un bianco, sono confrontati quotidianamente con due problemi: la mancanza di soldi, e l'inefficienza del sindacato. Per risolvere i loro problemi non troveranno di meglio che organizzare un furto avventato, quello alla cassa del sindacato medesimo, dal quale riceveranno non soldi, ma un libro di ricevute compromettenti. A questo punto, grazie naturalmente al talento di Schrader, sceneggiatore e soggettista, il film ha la sua svolta determinante. Da quadro d'ambiente su una situazione, il film diventa riflessione su una morale, su una meccanica di ben altra ampiezza.

Il sindacato si ribella. Ma non solo il sindacato: il sistema, il potere, la logica di una costruzione del quale il sindacato non è che una semplice componente. Contro questa logica implacabile l'individuo, ed i sentimenti (come l'amicizia o l'amore) che uniscono gli individui sono impotenti. Ed il film termina infatti non tanto con la sconfitta dei tre operai, cosa prevedibile. Ma con la degradazione e la scomparsa di quei legami umani, morali, che erano l'unica ricchezza che essi possedevano. Uno sarà liquidato; un secondo sarà assorbito dal sistema, diventando il nuovo capoccia, strumento di ulteriori sopraffazioni. In quanto al terzo, interpretato dal sempre efficace Harvey Keítel, egli rappresenta l'ormai tipico personaggio dell'universo di Schrader (quello non solo dei suoi film come regista, ma di quelli di Scorsese o di Pollack al quale ha collaborato come sceneggiatore): l'individuo puritano, quasi donchisciottesco, che si ribella nei confronti dell'ingiustizia con un gesto spesso violento, ai limiti dell'autolesionismo e dell'anacronismo.

BLUE COLLAR, permeato di una violenza più morale che fisica è quindi scritto con una logica, una sensibilità ed una rabbia ammirevoli. La costruzione evolve perfettamente, i personaggi sono compiuti e spiegati psicologicamente, immersi nel proprio ambiente. Tutto quanto, insomma, caratterizza uno script di valore. Se, con tutto ciò, il film convince ma non sempre commuove è perché a Schrader manca l'estro conclusivo dell'illustratore. Nel taglio di un'immagine, la scelta di un colore o di un'illuminazione, il tono di un commento musicale, l'intuizione di un rinvio di significati al montaggio, manca al film la zampata finale, e ahimè determinante. Schrader è uno che pensa: non ancora uno che sogna.


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